Signora Presidente, stiamo parlando di decreto-legge “crescita”: cominciamo col dire che la crescita in Italia è scomparsa. Non basta prendersela con un quadro europeo e globale più debole: gli altri Paesi crescono, l'Italia alla metà del 2018 era cresciuta per 14 trimestri consecutivi; e visto che parliamo di numeri, onorevole Flati, per favore, la smettete tutti di dire che è aumentato il debito quando è sceso con i governi a guida PD? Andatevi a vedere i numeri, una volta!
Dalla seconda metà del 2018, invece, il PIL galleggia fra recessione e stagnazione, e le previsioni degli organismi internazionali e nazionali, degli investitori, del settore privato, non danno molte speranze per il futuro: per l'anno in corso e per quelli successivi la crescita continuerà ad essere appena visibile. Il Paese si è fermato, e si è fermato soprattutto per le politiche anti-crescita del Governo. La crescita non si improvvisa, non si crea con le scorciatoie: certamente non la crescita sostenuta e sostenibile, né quella che crea lavoro. La crescita richiede invece il verificarsi di diverse condizioni, di cui la politica, una politica appena decente, dovrebbe farsi carico; e la politica di questo Governo certamente dimostra di non saperlo né volerlo fare.
La crescita richiede innanzitutto un quadro macro-economico e finanziario stabile, per assicurare la fiducia sulla direzione di marcia del Paese, nel breve e nel lungo periodo. Ma il Governo ha distrutto la fiducia: la fiducia dei mercati, come dimostra la salita dello spread e il peggioramento delle condizioni finanziarie; mercati che sono in attesa di comprendere le intenzioni del Governo, che invece ha cancellato l'ottimismo, come dimostra il calo degli indici di fiducia di imprese e famiglie che prosegue da metà 2018. Non a caso sono crollati gli investimenti, sono andati via gli investitori.
La crescita poi richiede riforme strutturali, per la produttività e l'occupazione. Il Governo invece ha adottato ed annunciato misure che smantellano le riforme introdotte nella legislatura passata, magari semplicemente per un fatto di colorazione politica: riforme che invece danno e davano solidità al quadro generale, come quelle del mercato del lavoro; ed ha introdotto misure che riducono il potenziale di crescita, come testimoniato dalle istituzioni internazionali. Mi riferisco a “quota 100” e al reddito di cittadinanza: mettetevi l'anima in pace, queste misure nel migliore dei casi non fanno nulla.
La crescita richiede investimenti privati, ma anche ovviamente un contributo importante degli investimenti pubblici; ma questi stagnano, malgrado i proclami che questo Governo aveva gridato al vento dai primi giorni del suo insediamento. Basta un dato: il rapporto ANCE appena diffuso ci ricorda che la gran parte degli investimenti pubblici, più del 90 per cento, sono bloccati ancor prima delle gare, per inadempienze amministrative, controversie politiche, ma anche e non solo per limiti di risorse. Invece con lo “sblocca cantieri” si favorisce l'illegalità, e alla faccia della semplificazione si moltiplicano i centri amministrativi e le istituzioni con competenza sulle opere pubbliche. È troppo facile purtroppo prevedere un'ulteriore fase di rallentamento, se non di arresto degli investimenti: da dove può venire la crescita?
La crescita poi richiederebbe un uso efficace e ben disegnato delle risorse di finanza pubblica: risorse che sono inevitabilmente scarse, risorse che dovrebbero finanziare strumenti utili alle imprese per crescere di dimensione, per investire in capitale fisico, in innovazione, in capitale umano, per diversificare le fonti di finanziamento. Invece già con le leggi di stabilità erano state introdotte misure che spingono le imprese alla riduzione della dimensione, alla frammentazione, all'immersione: misure che prevedono la soppressione di sostegni alla capitalizzazione. Un approccio quindi che inibisce la crescita e l'apporto di capitale, un approccio che peggiora la competitività dell'economia invece di sostenerla. È ancora troppo presto purtroppo per cogliere gli effetti negativi di queste misure: purtroppo ce le porteremo appresso.
Le misure del Governo invece dovrebbero sostenere le imprese, tanto quelle che sono sulla frontiera dell'eccellenza, e sono tante, quanto quelle rimaste indietro, aiutandole a muoversi rapidamente verso la frontiera, invece di perdere ulteriore terreno. Le misure del Governo dovrebbero ridurre, non aumentare l'incertezza, sostenere, non rallentare la crescita.
Questo decreto-legge insomma si colloca in un quadro già fortemente indebolito, in cui la finanza pubblica sembra evaporare prima ancora di essere attivata come strumento di politica industriale. Ma anche il decreto-legge in sé, al di là dell'ambiente in cui è chiamato ad operare, è largamente inadeguato: non solo per il contenuto, ma anche per il metodo di costruzione, che merita (si fa per dire) di essere menzionato; perché si tratta di metodi e contenuti che chiariscono le ragioni del tempo perduto, della ricchezza perduta, tempo perduto per mancanza di visione e di prospettiva e per incertezza dell'azione di Governo. Non è un caso che questo decreto-legge sia diventato un decreto omnibus, come già la collega Fregolent ricordava.
È un decreto-legge che contiene misure difficili da comprendere, o che introducono preoccupanti distorsioni, come lo sconto contributivo di un anno se un'impresa assume un giovane diplomato in una scuola a cui si sono donati 10 mila euro: spiegatemi la logica e la razionalità di questa misura. O come la riduzione del costo del lavoro - anche questo è stato ricordato - via manovre sulle tariffe INAIL, con coperture precarie ed efficacia a dir poco approssimativa. O come misure di finanza locale, disegnate sull'onda emotiva del “salva Roma” e sulla sua ambiguità, con la rinuncia ad una riforma complessiva che associasse autonomia e responsabilità.
Ci sono peraltro alcune misure che estendono ed ampliano quelle del precedente Governo, e che hanno dimostrato di essere efficaci, soprattutto nel sostenere gli investimenti delle imprese: misure che sono state reintrodotte, dopo essere state messe in discussione e sotto minaccia di essere soppresse. Tra le altre, le misure per le piccole e medie imprese e per gli investimenti nel quadro di Impresa 4.0. Sopprimerle sarebbe stato sconsiderato. Non c'era, però, bisogno di aspettare tanto per rimetterle in funzione. Altre misure sono, invece, chiaramente dannose, come quelle sulla rottamazione, ulteriore passo in avanti nella conferma di un Governo che ama i condoni e le scorciatoie.
Ci sono poi misure della categoria la “svolta ad u”. È un modo di agire del Governo che già abbiamo sperimentato con molta felicità ed efficacia nella fase di approvazione della legge di bilancio, quando le feste sul balcone sono state improvvisamente troncate dal richiamo alla realtà e, allora, la svolta ad u è diventata il modo di fare politica. Ma anche in questo caso la svolta ad u si è verificata relativamente, per esempio, alle imprese introdotte per - tra virgolette - “salvare le banche”, misure giustificate dai relatori - e anche questo è stato ricordato - con l'argomento che salvare una banca può essere necessario per salvare il Paese, soprattutto in un'economia bancocentrica come la nostra. Una simile argomentazione, pronunciata da maggioranza e Governo della passata legislatura, sarebbe stata accolta, è stata accolta, con parole di dileggio e di insulto anche sul piano personale. Chiedere di riconoscere gli errori del passato al Governo oggi in carica sarebbe evidentemente troppo. Ben venga, comunque, la svolta ad u a cui il Governo ci ha abituato da tempo se va nella giusta direzione, se va nell'interesse del Paese.
Ma aggiungo qualche parola sul metodo. Anche quando si è arrivati a riconoscere la necessità di cambiare la propensione alla collaborazione da parte della maggioranza questa è stata quasi inesistente. Nell'elaborazione del decreto il gruppo del Partito Democratico ha sempre cercato un dialogo per migliorare le misure nell'interesse del Paese e nell'interesse del buon senso. Quasi mai, però, l'offerta di dialogo ha trovato riscontro nella maggioranza, quasi mai c'è stata volontà di giungere a soluzioni condivise, quasi sempre senza una giustificazione plausibile o ragionevole. Anche a causa del quadro generale molto deteriorato l'impatto sulla crescita di questo decreto sarà assai ridotto se non peggiorativo, sia per i contenuti sia per la sua dimensione e anche questo la collega Fregolent l'ha ricordato ed è bene ripeterlo una volta in più. Si tratta di un'ulteriore risorsa e occasione sprecate ma la sua inefficacia riflette, ancora una volta, l'incapacità del Governo di dotarsi di una vera strategia. Non c'è spazio nella politica annunciata e praticata dal Governo per una visione, una prospettiva e un orizzonte temporale credibili. C'è, invece, una cornice di indecisione, d'incertezza, a volte di paura che evoca misure difensive, scorciatoie inutili quando non sono decisamente pericolose.
Pende sul Paese il rischio di una procedura d'infrazione per il debito, un primato assoluto per i Paesi della zona euro - non dimentichiamocelo -, una procedura che metterebbe a lungo l'Italia sotto una sorveglianza ravvicinata e invasiva. Per evitarla bisogna costruire un sentiero credibile di rientro della finanza pubblica ma anche un sentiero di crescita senza il quale il debito continuerà a lievitare; e, a proposito, è sconsiderato suggerire che l'Italia possa convivere con un debito al 200 per cento del PIL. Non ci si deve fare ingannare dalle sirene: crescita e sostenibilità vanno assieme.
Per concludere, signora Presidente, è vero che l'Italia ha forti fondamentali, primo fra tutti un solido settore esportatore che ne fa la seconda economia manifatturiera d'Europa e un Paese ad avanzo di parte corrente. Compito della politica è quello di sfruttare al meglio questi punti di forza per farli fruttare per le imprese, per le famiglie e per il Paese, ma da quello che vediamo, dopo un anno di scelte sbagliate e irresponsabili, dobbiamo purtroppo dire che questo non avverrà: non avverrà con questo decreto, non avverrà con questo Governo.